UN CUORE YOGA
La spiegazione tanto attesa è arrivata grazie a una metanalisi pubblicata su Frontiers in Immunology dai ricercatori delle Università britanniche di Coventry e Radbout, che hanno analizzato 11 studi effettuati nell’ultimo decennio che hanno coinvolto più di 800 persone, e dimostrato che ciò che lo yoga cambia in misura sostanziale è l’espressione di un gene chiamato Nuclear Factor kappa B o NF-kB. Spiega Francesco Bottaccioli, che ai complicati intrecci tra mente, sistema immunitario e sistema endocrino ha dedicato molti studi e diversi libri, presidente onorario della Società italiana di psico- neuro-endocrino-immunologia: «L’NF-kB è un gene cruciale, perché regola l’accensione o lo spegnimento di oltre 400 geni diversi legati all’infiammazione: per questo un effetto su di esso ha conseguenze molto ampie, come è evidente da tutto ciò che una pratica comporta su apparati e organi anche molto diversi, da quello respiratorio a quello muscolare, da quello digestivo a quello nervoso». In condizioni normali, il gene serve per attivare tutta la cascata di eventi che, in risposta a uno stress di qualunque tipo, portano all’infiammazione, estrema difesa dell’organismo. Ma quando l’alimentazione è scorretta, ci si muove poco, si fuma, si vive in ambienti inquinati e si è stressati o malati, il gene può essere più attivato del dovuto, e portare così a uno stato di infiammazione cronica, o anche solo a una iperattivazione del sistema immunitario, condizioni che non conducono a nulla di buono. «Quello che si è scoperto negli ultimi anni, e questa metanalisi lo conferma aggiunge Bottaccioli - è che lo yoga, grazie a un’azione epigenetica, modula l’azione di NF-kB, cioè ne attenua la reattività, permettendo di prevenire alcune patologie e di iniziare a curarne altre, una volta che la persona abbia già cominciato a non sentirsi bene». Alcuni degli studi presi in esame dai ricercatori inglesi, in effetti, mostrano che se si analizza lo stato epigenetico di persone che non praticano o non meditano e poi si ripetono i test dopo un certo periodo di pratica, la situazione cambia in maniera evidente, e misurabile. E negli ultimi mesi altre ricerche vanno nella stessa direzione. Su tutte, una pubblicata da Obesity: gli endocrinologi dell’Università della Pennsylvania hanno dimostrato, su un’ottantina di donne obese o in sovrappeso, che,anche senza altri interventi per esempio sulla dieta e sullo stile di vita, la meditazione abbassa significativamente e stabilmente la glicemia a digiuno, un parametro che le persone a rischio diabete devono tenere sotto controllo. Un altro lavoro, pubblicato dai ricercatori dell’Università di San Paolo, in Brasile, su Frontiers in Aging Neuroscience, mostra poi che il cervello degli yogi anziani, cioè di chi ha praticato per molti anni (almeno 8, an- che se la maggior parte dei 21 partecipanti ultrasessantenni praticava da 15) con regolarità, presenta una corteccia prefrontale (il cui assottigliamento è un fattore di rischio per la demenza) più spessa dei coetanei che non hanno mai seguito una delle discipline mente-corpo.
Per avere questi effetti, commenta Bottaccioli, ci vogliono pazienza, e costanza: «Queste modifiche riguardano l’espressione o la mancata espressione di alcuni geni, fenomeni che richiedono tempo. Questo significa che non basta praticare una tantum, ma è necessario intraprendere un percorso nel quale non solo si impara a farlo nel modo giusto, ma si dà anche il tempo all’organismo di effettuare le modifiche suggerite da una certa azione e poi goderne appieno i benefici. Inoltre, poiché si tratta sempre di effetti relativamente duraturi ma reversibili, è bene continuare per tutta la vita, scelta che del resto molti fanno proprio perché percepiscono che qualcosa migliora, e migliora costantemente."
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